Il mito di Roma antica nel cinema: l’eterna fascinazione della grandezza imperiale
Ci sono miti che non si spengono mai, che restano scolpiti nella coscienza collettiva come colonne marmoree, seppur consunte dal tempo. Roma, più che una città, è una dimensione dello spirito: un’idea di potenza e decadenza, di ordine e caos, di razionalità e misticismo. L’Urbe è un’ombra lunga che attraversa i secoli, riflessa nell’arte e nel cinema, contaminando epoche e immaginari con una narrazione che non cessa di sedurre.
Da Piranesi a Fellini, da Alma-Tadema a Kubrick, il mito di Roma è stato reinventato in innumerevoli forme, alternando l’apologia della grandezza imperiale al dramma della sua rovina. Ma perché, ancora oggi, la Roma dei Cesari continua a incantare e inquietare? Forse perché è il paradigma assoluto della civiltà, della sua ascesa e del suo inevitabile tramonto.
La Roma dell’immaginario pittorico: visioni tra grandiosità e nostalgia
L’iconografia di Roma antica si è modellata nel tempo attraverso una stratificazione di evocazioni artistiche. Giovan Battista Piranesi, nel XVIII secolo, innalzò le rovine della città a emblema di una maestosità perduta, creando incisioni visionarie in cui il foro, gli acquedotti e i templi sembrano monumenti senza tempo, sospesi in un silenzio metafisico. Il suo tratto, marcato e febbrile, trasforma le vestigia romane in un’allucinazione di pietra, una Roma che esiste più nell’immaginario che nella realtà.
Nel XIX secolo, gli artisti del neoclassicismo e dell’orientalismo resero Roma un teatro di fasti imperiali e scene licenziose. Lawrence Alma-Tadema, con il suo tratto meticoloso, ci ha restituito una Roma sontuosa e languida, in cui l’arte del vivere sembra raffinata quanto l’architettura che la incornicia. I suoi dipinti sono quadri di un mondo perduto, in cui il marmo candido delle colonne si sposa con il carminio delle toghe e il riflesso dorato del sole sui mosaici delle domus patrizie.
Ma la Roma della pittura non è solo celebrazione. Turner e i romantici del XIX secolo, invece, la dipinsero come un simbolo della caducità delle civiltà: rovine avvolte in un’atmosfera malinconica, dove la grandezza è già mutata in polvere. Qui il mito non è più solo ammirazione, ma monito: ogni impero, anche il più glorioso, è destinato al declino.
Roma sul grande schermo: tra epica e decadenza, un primo excursus (prima di andare nel dettaglio)
Il cinema, come l’arte, ha attinto a piene mani dall’immaginario romano, riscrivendolo con nuove forme e sensibilità. La Roma di Hollywood è stata dapprima spettacolo, poi allegoria, infine critica politica e sociale.
Negli anni ’50 e ’60, l’età d’oro del peplum, Roma era un immenso palcoscenico su cui si muovevano eroi e tiranni, gladiatori e imperatori. William Wyler, con il suo monumentale “Ben-Hur” (1959), scolpì l’immagine di una Roma oppressiva, dominata dal potere e dall’ingiustizia, contro cui il protagonista si ribella. Il film, con la sua celebre corsa delle bighe, divenne un paradigma visivo e narrativo che influenzò generazioni di cineasti.
Nel 1960, Stanley Kubrick offrì una lettura politica della Roma imperiale con “Spartacus”, in cui il personaggio di Kirk Douglas divenne il simbolo della resistenza contro la tirannia. Il film, oltre a essere un capolavoro visivo, rifletteva le tensioni della Guerra Fredda, trasformando l’Impero romano in una metafora dei regimi totalitari.
Negli anni successivi, la Roma cinematografica cambiò volto, perdendo il suo alone di leggenda per assumere una dimensione più intima e riflessiva. Federico Fellini, con “Roma” (1972), spogliò l’Urbe della sua monumentalità eroica per restituircela come un caos vitale e contraddittorio, una città che non è più l’epicentro del mondo ma un labirinto di memorie e desideri. La sequenza della sfilata ecclesiastica – un grottesco carnevale di vesti e croci – è l’emblema di un’Impero che non è mai veramente caduto, ma si è trasformato, trasfigurandosi nel suo stesso eccesso.
Roma distopica: quando l’Impero diventa incubo e allegoria
Se il cinema classico ha celebrato Roma come teatro di epiche battaglie e intrighi di palazzo, la cinematografia più recente ha spesso capovolto la prospettiva, trasformando l’Impero in un’inquietante distopia. Non più simbolo di grandezza, ma specchio di un mondo che si avvia verso il proprio collasso, la Roma del grande schermo si è fatta sempre più oscura, violenta, oppressiva.
Un esempio emblematico è “Satyricon” (1969) di Federico Fellini, un’opera visionaria e destrutturata che rilegge Petronio in chiave onirica e allucinata. Il film non si preoccupa di ricostruire fedelmente la Roma antica, ma la trasforma in una dimensione sospesa tra sogno e delirio. La città è un labirinto di eccessi, dominato da un senso di perdita e smarrimento: i suoi abitanti si muovono come marionette in un mondo senza più valori, dove la bellezza e la crudeltà si intrecciano senza soluzione di continuità. Fellini, qui più che mai, fa della Roma imperiale un’allegoria del presente, un universo privo di certezze, dove l’uomo è ridotto a pura pulsione. Tra le scene indimenticabili, la cena di Trimalchione.
Questa lettura distopica trova un’eco nel cinema di Terry Gilliam, il quale nel suo “Brazil” (1985) non cita esplicitamente Roma, ma costruisce una società totalitaria che richiama gli apparati burocratici dell’Impero romano. La sua metropoli asfissiante, soffocata dalla sorveglianza e dal culto dell’apparenza, sembra un riflesso moderno della Roma decadente descritta da Petronio e ripensata da Fellini.
Anche il cinema americano ha rielaborato Roma in chiave apocalittica. “The Last Days of Pompeii” (1935 e 1959), pur non ambientato a Roma ma nella città campana, ha sempre funzionato come un monito sulla fine di un mondo: l’eruzione del Vesuvio diventa metafora di un’umanità cieca di fronte alla propria rovina. Un concetto ripreso, con un’estetica più cupa e moderna, da Paul W.S. Anderson nel suo “Pompeii” (2014), dove la distruzione si intreccia con l’avidità e la corruzione del potere imperiale.
Forse la più radicale rilettura distopica della Roma antica arriva con “Coriolanus” (2011) di Ralph Fiennes, un adattamento dell’opera di Shakespeare ambientato in una Roma contemporanea, trasformata in una città dominata da guerra e militarizzazione. Qui Roma non è più un’ambientazione storica, ma un concetto astratto: un sistema politico pronto a divorare se stesso, dove il confine tra civiltà e barbarie è sottilissimo.
Questa lettura si sposa con una tendenza più ampia della cinematografia contemporanea: il mito di Roma non è più sinonimo di grandezza, ma di decadenza. L’Impero diventa metafora di un mondo in crisi, incapace di trovare un equilibrio tra ordine e caos, potere e giustizia.
Roma e la psicologia del potere: il fascino degli imperatori nel cinema moderno
Una delle ossessioni più persistenti della narrazione cinematografica su Roma è il fascino ambiguo dei suoi imperatori. Non esiste civiltà che abbia prodotto una galleria di figure così carismatiche e contraddittorie: visionari, tiranni, strateghi, folli. Il cinema ha dato loro nuova vita, trasformandoli in icone del potere, della sua grandezza e della sua perversione.
Nella Hollywood classica, gli imperatori erano spesso ritratti in bianco e nero: o despoti corrotti o sovrani illuminati. “Quo Vadis” (1951) di Mervyn LeRoy dipinge Nerone, interpretato da Peter Ustinov, come un folle sanguinario, caricaturale nella sua eccentricità, simbolo di una Roma moralmente decaduta. Un ritratto simile viene proposto in “The Robe” (1953) e “Demetrius and the Gladiators” (1954), dove il potere imperiale è associato alla corruzione e alla crudeltà.
Negli anni ’60, con il cambiamento dei paradigmi narrativi, gli imperatori diventano più complessi. “The Fall of the Roman Empire” (1964) di Anthony Mann propone Marco Aurelio, interpretato da Alec Guinness, come un filosofo tormentato, consapevole della fragilità dell’Impero e della propria impossibilità di cambiarne il destino. Il contrasto con il suo successore, Commodo, è netto: se Marco Aurelio rappresenta la saggezza e la misura, Commodo (un giovanissimo Christopher Plummer) incarna la degenerazione del potere, un uomo assetato di gloria che precipita Roma nel caos.
Ma è nel cinema contemporaneo che gli imperatori diventano veri e propri protagonisti, figure tragiche più che antagonisti. “Il Gladiatore” (2000) di Ridley Scott reinventa Commodo (Joaquin Phoenix) come un uomo fragile, dilaniato dalla sete di approvazione e dalla paura di non essere all’altezza del padre. Non è solo un tiranno, ma un’anima spezzata, un personaggio tragico nel senso più puro del termine. Un film che, tra l’altro, ci regala uno dei monologhi più epici della storia del cinema.
Un’altra rilettura affascinante è quella di Caligola, forse il più controverso degli imperatori romani. Tinto Brass, con “Caligola” (1979), ne offre una visione estrema e iperbolica, dove il potere si trasforma in delirio, erotismo e violenza. Il film, con il suo mix di pornografia e tragedia, fu un caso cinematografico e rimane una delle interpretazioni più radicali della Roma imperiale.
Ma il più iconico tra gli imperatori cinematografici resta Claudio, protagonista della celebre serie della BBC “I, Claudius” (1976). Interpretato magistralmente da Derek Jacobi, Claudio è un antieroe per eccellenza: un uomo sottovalutato, ritenuto debole a causa della sua balbuzie e della sua salute fragile, ma capace di sopravvivere alle insidie della corte e di governare con astuzia. La serie, ispirata ai romanzi di Robert Graves, ha segnato un punto di svolta nella narrazione televisiva dell’antica Roma, ponendo l’accento sugli intrighi più che sulle battaglie, sulle psicologie più che sulle celebrazioni eroiche.
Il fascino degli imperatori nel cinema non si esaurisce: Paolo Sorrentino, con “The Young Pope”, ha proposto un parallelo tra il papato e l’Impero romano, suggerendo che le dinamiche del potere ecclesiastico siano l’ultima eredità autentica della Roma imperiale. Il papa di Jude Law, enigmatico e spietato, sembra la reincarnazione moderna di un Cesare, un sovrano che governa più con il mistero che con la forza.
La figura dell’imperatore, dunque, continua a esercitare un potere magnetico nel cinema, perché racchiude il dilemma eterno della leadership: si può governare senza corrompersi? Roma, con la sua storia grandiosa e terribile, sembra suggerire che la risposta sia sempre negativa.
Ai giorni nostri: Romanzo Criminale e Suburra, il racconto della Roma contemporanea che, però, non cambia mai
Nel panorama della serialità italiana, Romanzo Criminale – La serie e Suburra – La serie rappresentano due esempi straordinari di come il mito di Roma antica, con le sue trame di potere, violenza e destino, possa essere trasfigurato nella contemporaneità. Entrambe le serie, pur affondando le radici in vicende storiche e cronache criminali moderne, attingono a un immaginario profondamente classico, evocando l’eterna lotta tra ordine e caos che ha caratterizzato la storia dell’Urbe sin dai tempi della Repubblica e dell’Impero.
Romanzo Criminale, ispirata al romanzo di Giancarlo De Cataldo, racconta l’ascesa e la caduta della Banda della Magliana, trasfigurando il sottobosco criminale della Roma degli anni ’70 e ’80 in una vera e propria saga epica. Il Libanese, il Freddo e il Dandi non sono semplici criminali, ma moderni “imperatores” di un impero fragile, segnato da tradimenti, alleanze e rovinose cadute, proprio come i grandi protagonisti della storia romana, da Giulio Cesare a Nerone. La capitale stessa, con le sue strade millenarie e i suoi quartieri degradati ma carichi di storia, diventa un palcoscenico su cui si consuma un dramma shakespeariano, con la legge del più forte a dettare il destino dei personaggi.
Allo stesso modo, Suburra, primo prodotto italiano targato Netflix, si spinge ancora oltre, tracciando una rete di connessioni tra politica, criminalità organizzata e Chiesa che rievoca l’antica corruzione dell’Urbe. I suoi protagonisti – Aureliano, Spadino e Lele – incarnano archetipi che affondano le radici nella classicità: il guerriero ribelle, il principe decadente, il figlio diviso tra dovere e ambizione. Ogni episodio si sviluppa come un moderno scontro tra fazioni, con i senatori e i patrizi di un tempo sostituiti da politici senza scrupoli e alti prelati assetati di potere. L’eco dell’Antica Roma risuona nella violenza delle lotte per il predominio, nell’ineluttabilità della caduta e nell’inesorabile destino che sembra governare ogni passo dei protagonisti.
Queste due serie non si limitano a raccontare la malavita romana: la trasfigurano, la mitizzano e la elevano a nuova leggenda, trasformando la Capitale in un’arena in cui si combatte la stessa battaglia che l’ha resa immortale nei secoli.
Perché il mito di Roma non muore mai?
Cosa rende Roma così perennemente affascinante? La risposta sta nella sua doppia natura: è al contempo il vertice della civiltà e il simbolo della sua fine. È il sogno di un ordine perfetto e la realtà della sua fragilità. Ogni epoca ha riletto Roma alla luce dei propri timori e delle proprie speranze: il Rinascimento vi ha visto il modello da ricostruire, il Romanticismo la prova della caducità dell’umano, il cinema contemporaneo un’ossessione di grandezza e decadenza.
Roma è l’archetipo stesso del potere, e il potere – con la sua fascinazione e il suo pericolo – è un tema eterno. Nell’arte e nel cinema, l’ombra dell’Urbe continuerà a proiettarsi, mutando forme ma non sostanza. Perché, come scriveva Marguerite Yourcenar, “Non esiste un’impero che non abbia creduto di essere eterno”.
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