“Et in arte ego”: i papi nell’arte e il lungo sguardo della Chiesa
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Et in arte ego: i papi nell’arte e il lungo sguardo della Chiesa

“Et in arte ego”: i papi nell’arte e il lungo sguardo della Chiesa

Nell’alba del 21 aprile 2025, in una più che insolita Pasquetta soleggiata, si è spento Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco: ultimo pontefice in ordine cronologico di una genealogia millenaria che ha plasmato — nel bene e nel male — il volto della Chiesa, ma anche quello dell’arte. Con lui se ne va l’uomo dei gesti semplici e del “chi sono io per giudicare?”, della sedia di legno al posto del trono, dell’abbraccio ai migranti e della Laudato si’. Se ne va il Papa che si esprime sulla possibilità di un genocidio a Gaza e che chiede pace per l’Ucraina. Ed è in questo momento di vuoto che lo sguardo si rivolge all’indietro, non solo alla sua eredità spirituale, ma a ciò che, nel corso dei secoli, ha legato la figura papale all’immaginario, alla rappresentazione, alla bellezza.

La corporeità del sacro: il papa nell’arte figurativa

L’arte, in tutte le sue forme, ha rappresentato i papi con insistenza quasi ossessiva. E questo non per mera ritrattistica ufficiale, ma per un bisogno più profondo: comprendere l’umanità e la solennità di un’istituzione che, pur essendo radicata nel sacro, resta profondamente terrena. Fin dai primi secoli, la figura del pontefice — successore di Pietro — ha trovato spazio nella rappresentazione artistica. I mosaici paleocristiani delle basiliche romane, come quelli di San Paolo fuori le Mura o Santa Maria Maggiore, già restituivano l’idea del papa come testimone e custode della fede: un’icona tra le icone, non ancora individualizzata ma già autorevole.

Con il Medioevo, il ritratto assume contorni più marcati. Le miniature dei codici liturgici e le pitture murali, come quelle di Cimabue o Giotto, iniziano a distinguere i papi attraverso attributi riconoscibili: la tiara, il piviale, la croce papale. Ma è con il Rinascimento che l’immagine del papa entra nella piena era della rappresentazione. Si pensi al monumentale ritratto di Giulio II di Raffaello (1511–12), custodito oggi alla National Gallery di Londra. Il pontefice non è mostrato nell’atto di benedire, né in trono, ma seduto, pensieroso, le mani congiunte in una tensione trattenuta. Raffaello compie una rivoluzione: il papa non è solo un’istituzione, è un uomo. È potere, dubbio, meditazione. In quello stesso periodo, Michelangelo, sotto commissione papale, trasforma la Cappella Sistina in un racconto cosmico dove il papa diventa garante visibile del disegno invisibile di Dio.

Ritratto di Giulio II – Raffaello Sanzio (1511-12)

Nel Barocco, con Bernini, la teatralità della figura papale esplode: i busti di Urbano VIII o Alessandro VII catturano il respiro del potere, lo splendore del marmo che diventa carne. I ritratti, ora, sono anche diplomazia, propaganda, controllo. Il papa viene rappresentato come figura regale e spirituale insieme: l’apice dell’arte cortigiana.

Busti di Urbano VIII – Bernini

I papi nei codici della pittura moderna e contemporanea

Con la modernità, il ritratto papale si fa sempre più soggetto di interrogazione. La secolarizzazione porta con sé uno sguardo meno reverente. Il potere spirituale viene spesso colto nel suo lato ambiguo, o addirittura perturbante.

È celebre il caso di Francis Bacon e la sua serie di “Papi urlanti”, ispirati liberamente al ritratto di Innocenzo X di Velázquez. In queste opere, il pontefice — figura di autorità massima — è deformato, urlante, imprigionato in gabbie invisibili. L’urlo che Bacon dipinge è il rovescio dell’infallibilità, la carne viva dell’uomo sotto il peso dell’istituzione. Non si tratta di un attacco anticlericale, quanto di una vertigine esistenziale: cosa resta dell’autorità quando l’immagine si sgretola?

Francis Bacon – Papi urlanti

Eppure, anche nell’arte contemporanea più sperimentale, la figura del papa continua ad attrarre. Alcuni artisti come Yan Pei-Ming, Zeng Fanzhi o Marlene Dumas hanno affrontato la spiritualità e le sue rappresentazioni con sensibilità nuove, dove il papa diventa talvolta spettro, talvolta eco, talvolta figura anonima in una liturgia svuotata.

E poi ci sono i fotografi: Steve McCurry, Oliviero Toscani, Sebastião Salgado — ognuno a modo suo — ha immortalato l’autorità spirituale non come entità statica, ma come presenza incarnata: l’anziano che prega, l’uomo tra la folla, il gesto della mano che benedice e consola.

Dalla committenza alla censura: Chiesa e arte, un legame ambiguo

È impossibile parlare dei papi nell’arte senza affrontare il nodo centrale del rapporto tra Chiesa e produzione artistica. Un rapporto che ha conosciuto fasi di profonda simbiosi e momenti di violenta frizione. Durante il Medioevo e soprattutto il Rinascimento, la Chiesa è stata il principale mecenate dell’arte occidentale. Le grandi cattedrali, i cicli pittorici, le opere scultoree — tutto era volto a rendere visibile l’invisibile, a spiegare il mistero con la bellezza. I papi di quel tempo, come Niccolò V, Sisto IV, Giulio II o Paolo III, hanno commissionato alcune delle opere più importanti della storia dell’arte, agendo come autentici curatori di una visione del mondo. Eppure, la relazione non è mai stata lineare. La Riforma e la Controriforma hanno imposto limiti, regole iconografiche, forme di censura. L’arte doveva essere decente, didattica, devota. Caravaggio, ad esempio, vide rifiutata più volte la sua arte proprio per la crudezza e l’eccesso di realtà. Ma, nel tempo, la Chiesa ha dovuto fare i conti con una modernità che non le apparteneva.

Nel Novecento, il dialogo si fa più difficile. L’arte si allontana dalla rappresentazione religiosa, o la decostruisce. La Chiesa, dal canto suo, oscilla tra il rifiuto e la cauta apertura. Ma ci sono eccezioni. Papa Giovanni Paolo II, con la sua Lettera agli artisti del 1999, rilancia un appello: “Anche voi siete chiamati a dare forma alla bellezza, a rendere visibile ciò che l’anima desidera”. È un invito al dialogo, al superamento delle reciproche diffidenze.

Papa Francesco e l’arte: silenzio, gesti, simboli

In questo lungo racconto, si inserisce ora l’ultima pagina: Papa Francesco. A differenza di molti predecessori, non è stato un grande committente artistico. Non ha promosso nuove decorazioni, né grandi progetti estetici. Ma ha incarnato un linguaggio simbolico potente, fatto di scelte e gesti che parlano più di molte opere. Il crocifisso nero, la croce pettorale in ferro, l’abbandono dell’oro e della porpora. La rinuncia all’appartamento pontificio, la predilezione per i viaggi nelle periferie, l’attenzione ai volti più che alle cornici. Francesco ha riportato il sacro nella quotidianità e ha restituito alla figura papale una forza iconica tanto più incisiva quanto più essenziale. Anche la sua immagine ha generato arte. Non tanto nei circuiti ufficiali, quanto nella street art, nei disegni dei bambini, nelle illustrazioni digitali, nei poster che lo ritraggono come “Papa del popolo”. Non è un’estetica della magnificenza, ma della prossimità. Un’estetica povera, come quella di San Francesco, a cui ha voluto legarsi sin dal nome.

Oltre la tiara, l’immagine dell’uomo

Oggi, mentre il mondo piange la scomparsa di Papa Francesco, l’arte che rappresenta i papi ci offre uno specchio in cui osservare ciò che resta. Non solo il volto di un papa, ma il riflesso di un’istituzione millenaria e del nostro bisogno di rappresentarla. L’arte ha sempre saputo cogliere — e spesso anticipare — le trasformazioni del sacro. Ha smascherato il potere, ha celebrato la spiritualità, ha scavato nella contraddizione. E forse, proprio in questo sguardo molteplice, si rivela il mistero della figura papale: un uomo che porta il peso del divino, ma cammina nella polvere del mondo. In fondo, i papi sono stati — e saranno ancora — figure liminari, sospese tra il cielo e la terra. L’arte continuerà a ritrarli, deformarli, esaltarli, ma sempre per la stessa ragione: perché nella loro immagine, come in uno specchio, proviamo a intravedere qualcosa di noi.

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